Capita a tutti di percepire e subire una serata teatrale “no”, ma ci si chiede sempre il perché, se il contesto si sia prospettato invece foriero di distensione e di gioiosa fruizione dell’arte musicale… E’ ciò che è successo per la rappresentazione catanese del turco in Italia di Gioachino Rossini, andato in scena al teatro Massimo Vincenzo Bellini il 24 apriile 2015. Tutto al proprio posto, tutto in ordine… E allora?
Dopo lunga riflessione già durante la rappresentazione, le conclusioni tratte sono venute fuori in chi scrive solo dopo aver digerito nell’insieme uno spettacolo che avrebbe potuto essere di qualità, ma non ha tenuto fede alle promesse.
Michele Mirabella, che ha curato la regia, se ha reso teatralmente plateale il coro nella recitazione e vigilato sui particolari dei movimenti delle comparse, è sembrato trascurare giusto gli interpreti principali. Li ha schierati in ranghi compatti, come soldatini, soprattutto nei concertati, ponendoli quasi sul proscenio, a fianco l’uno dell’altro. Questo non ha giovato alla proiezione delle voci, che andebbero sempre collocate strategicamente, teatro per teatro, a favore d’acustica, e che, essendo profondamente diverse l’una dall’altra, invece di fondersi hanno creato una gran confusione.
Tutto ciò non ha giovato neanche all’azione scenica che di tratto in tratto, nonostante perfino gli interventi danzati con la coreografia di Silvana Lo Giudice, sembrava congelarsi e divenire teatralmente solenne, priva del brio necessario che andrebbe impartito dalla regia per ornare di giusti espedienti recitativi la partitura rossiniana.
In quest’opera di Rossini (e non solo in questa) la regia è fondamentale: si dà vita a Il turco in Italia soltanto cogliendo quegli spunti geniali che Rossini ha disseminato qua e là magistralmente e furbescamente. Non saperli cogliere è l’appiattimento dell’intera produzione.
Queste défaillances registiche hanno lasciato anche spazio, purtroppo e senza pietà, alle défaillances della direzione d’orchestra.
Il Maestro catanese Leonardo Catalanotto, pur impegnandosi al massimo, mantenendo la brillantezza del suono e fornendo supporto agli interpreti, ha tenuto il volume orchestrale pressoché piatto, rendendo assenti anche i chiaroscuri: non esaltando le dinamiche, in automatico sono mancati perfino i veri e propri crescendo rossiniani, che contribuiscono a fare delle opere del grande pesarese dei capolavori unici nel loro genere.
Dal canto loro, le singole voci non hanno aiutato l’insieme; ed una nota speciale riguarda le agilità: la partutura né è costellata come un fuoco d’artificio, ma per tutti gli interpreti, nessuno escluso ed eccettuato, si sono dimostrate un pio desiderio, quanto a precisione ed a coordinamento, tra i cantanti stessi e con l’accompagnamento orchestrale. Indispensabile in quest’opera un lavoro di cesello pure vocale: mancando quello, la sensazione di approssimazione è divenuta a tratti davvero stridente.
Simone Alaimo, ormai turco assai attempato ed opaco anche vocalmente, ha solo riecheggiato lo strepitoso se stesso di parecchi anni fa, sempre al Bellini, in una produzione che allora fu davvero spumeggiante.
Il soprano Silvia Dalla Benetta, sia pure corretta Fiorilla, non ha brillato per proiezione, nè per facilità negli acuti, nonché per espressività dell’interpretazione. Fiorilla necessita di un equilibrio recitativo sottile, nè troppo bamboleggiante, né troppo verista: l’equilibrio del personaggio, stereotipo, ovviamente, della “moglie capricciosa ma onesta” infedele con leggerezza, va tenuto sul filo del rasoio. Lode comunque alla Dalla Benetta che, lasciata praticamente a se stessa dalla regia, ha dimostrato un impegno tutto personale.
Come per Fiorilla, è stata mancata anche la caratterizzazione del personaggio del marito Geronio. Il baritono Marco Filippo Romano ha dato del personaggio buffo, stereotipo anch’esso, una versione quasi drammatica, che cozzava con la caricatura insita nel personaggio: pur essendo la voce più dotata e più corretta della serata è stato però evidentemente penalizzato dalla propria vena drammatica, oltre che dalla regia.
Gran buona volontà per Giorgio Misseri, Don Narciso, e per Antonella Colajanni, Zaida, come per Giulio Mastronotaro, Prosdocimo, per ma ben lungi dal livello che avrebbero dovuto raggiungere quali voci principali del cast e, in scena, solo semplici sagome.
Stessa sensazione di approssimazione per il resto del cast e per il Coro, curato dal gallese Ross Craigmail, galvanizzato dalla regia, ma vocalmente carente di amalgama e necessarie finezze.
Insomma…un sentore complessivo di stiracchiamento e di prolissità che sul momento non sembrava avere una spiegazione coerente, ma che in realtà era la risultante di una carenza generalizzata nel nerbo che tenesse in piedi l’intera produzione, sia dal punto di vista musicale che da quello scenico.
Unica nota gradevole le scene e soprattutto i costumi del nuovo allestimento di Alida Cappellini & Giovanni Licheri, illuminati dalle luci di Franco Ferrari…con un occhio di riguardo al compianto Emanuele Luzzati. Il che fa sempre effetto…
Applausi comunque per gli interpreti, ma variegati i commenti del pubblico alla fine, spiazzato nell’insieme dalla sensazione che la noia la facesse troppo spesso da padrona. E per far diventare noiosa un’opera di Rossini bisogna davvero mettersi d’impegno.
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