Aida, sontuosa, magnifica, sempre spettacolare in qualsiasi allestimento. Questo è quanto si aspetta il pubblico da questa grandiosa creazione scaturita dal genio di Giuseppe Verdi.
Per la prima rappresentazione dell’opera in titolo in cartellone nel 99° Arena di Verona Opera Festival, finalmente liberi dalle mascherine e dai distanziamenti, il pubblico è accorso numerosissimo e l’anfiteatro era gremito fino all’ultima gradinata. Ma è rimasto piuttosto deluso. La sensazione generale è stata quella di assistere a una specie di prova generale, anzi di un ante generale. Evidente la poca sincronia tra orchestra, palco, coro, maestranze e perfino tecnici.
Arena di Verona
Si, perfino l’allestimento scenico è stato completato davanti agli occhi del pubblico già seduto, annullando così una parte della “magia” scenografica del maestro Franco Zeffirelli, rivelando in anticipo trucchi e segreti della enorme piramide che, in questa messa in scena, riempie per buona parte il grande palco dell’anfiteatro.
Un vero peccato perché si può comunque evincere, in un simile allestimento, il “faraonico” lavoro di tutto il personale coinvolto, che si conclude in una resa scenografica, canora e musicale che dovrebbe ammaliare e affascinare lo spettatore portandolo in un altro mondo per tre ore. In questo caso invece abbiamo notato noia, insoddisfazione e più di qualche defezione anticipata.
Splendida l’orchestra della Fondazione Arena di Verona che il maestro Daniel Oren ha diretto con la famosa maestria e gusto che lo contraddistingue, ma chiaramente si è capito, appena dopo l’ouverture, che non c’erano intese sufficienti tra buca e palco. Purtroppo i volumi sono stati dal direttore volutamente controllati, quasi soffocati per non coprire i cantanti, tanto che, a parte alcuni momenti lirici e intensi, molte sonorità sono state appena udibili, rendendo la partitura verdiana poco efficace.
Daniel Oren
Spiace veramente sottolinearlo, ma il comparto canoro dei protagonisti è stato inadeguato, appena al livello minimo sindacale richiesto da un teatro così importante. Come già ribadito molte volte, questo grande palco richiede, letteralmente, grandi voci.
Murat Karahan nel ruolo di Radamès, è dotato di una voce che è lontana da un ruolo così eroico e impetuoso. Molti gli errori di dizione e pronuncia, i quali, uniti a una naturale carenza di volume, hanno contribuito ad una performance priva di smalto. Di sicuro il bel colore di voce risulterebbe gradevole in ruoli più leggeri.
Ekaterina Semenchuk e Murat Karahan
La protagonista dell’opera in titolo, Aida, ci ha lasciati un po’ imbarazzati. Lo scarso uso delle consonanti, con conseguente impossibilità di sganciarsi nei fraseggi, hanno reso la sua prova una specie di unico vocalizzo, per lo più incomprensibile, poco vicino alla partitura e spesso ai limiti dell’intonazione; anche la parte drammaturgica è sembrata ancora grezza e da migliorare notevolmente. Peccato perché per Liudmyla Monastryrska il materiale e la dotazione ci sono, e se usati con proprietà, potrebbero dare ottimi risultati.
Liudmyla Monastryrska
Per quanto concerne il resto degli interpreti non c’è molto da dire: abbastanza buono Sava Vemić, Il Re, anche se eccessivamente rigido, quasi intimorito nel dosare l’emissione vocale; traballante l’esecuzione di Ferruccio Furlanetto nei panni di Ramfis.
Sava Vemić
Degne di nota invece le prestazioni canore di Carlo Bosi, Un messaggero, voce squillante e ben puntata, e di Roman Burdenko nella fondamentale parte di Amonasro, padre di Aida. Quest’ultimo è stato decisamente il migliore sul palco, con bella voce brunita, squillante, decisa e comprensibile dizione.
Murat Karahan e Ferruccio Furlanetto
Anche Francesca Maionchi da dietro le quinte ha reso una buonissima Sacerdotessa.
Coro della Fondazione Arena (istruito dal nuovo direttore Ulisse Trabacchin) in grande spolvero dal punto di vista canoro e musicale ma, purtroppo, anche questo ha risentito della confusione generale, con frequenti attacchi sbagliati e qualche inciampo scenico.
Notevole il Corpo di Ballo della Fondazione Arena di Verona, il quale, con le coreografie di Vladimir Vasiliev, e il coordinamento di Gaetano Petrosino, ha degnamente abbellito ulteriormente le scenografie, e, con grazia ed eleganza, ha regalato momenti di bellezza e armonia. Protagonisti dei quadri scenici danzanti i primi ballerini Ana Sofia Scheller, Fernando Montano e Ekaterina Olenik. Bravi.
Onnipresenti i tocchi di colore dei bellissimi costumi di Anna Anni.
È stato dunque uno spettacolo un po’ sottotono rispetto agli standard qualitativi che di solito propone la Fondazione, ma non sono mancati gli applausi a fine recita. Siamo convinti che questo sia stato un incidente di percorso e che sia servito a scaldare i motori, e siamo certi che le prossime recite saranno degne della fama di questo Teatro che tutto il mondo ci invidia.
La recensione si riferisce alla prima del 18 giugno 2022
Dal 26 al 29 giugno quattro imperdibili appuntamenti al Teatro Argentina della Capitale per il “Rome Chamber Music Festival” giunto alla sua XIX edizione. Un programma ogni sera diverso, eseguito da 42 musicisti di cui 35 giovanissimi provenienti da tutto il mondo, che spazierà dal barocco al contemporaneo, passando per Respighi, Stravinsky, Philip Glass, le canzoni di Broadway e di David Bowie. Suoneranno maestri del calibro di Robert McDuffie (ideatore e direttore artistico del Festival), Sara Mingardo, Nicholas Mann, Elena Matteucci, Ivano Zanenghi, Michael Barrett, Guglielmo Pellarin, Giorgio Fava, Luca Sanzò e molti altri. Gli artisti arrivano da Canada, Cina, Corea del Sud, Germania, Francia, Italia, Malesia, Polonia, Regno Unito, Slovacchia e Stati Uniti d’America. Sarà Robert McDuffie, direttore artistico del festival, ad esibirsi con il suo inseparabile violino Guarneri del Gesù (ex Ladenburg) del 1735 che fu suonato anche da Niccolò Paganini. Circa 20 anni fa un gruppo di 16 investitori, che si fa chiamare 1735 del Gesù Partners L.P., acquistò ufficialmente il Ladenburg per darlo in prestito al maestro McDuffie. Il valore attuale di questo straordinario strumento è di oltre 3,5 mln di dollari. Molta attesa per la Suite dedicata a David Bowie e l’ormai classico Philip Glass con il concerto “Le quattro stagioni americane” da lui composto per Robert McDuffie e il suo magico violino. Il programma del Festival accosta senza inibizioni Schubert, Brahms e David Bowie, perché, sottolineano gli organizzatori, “questo festival non ha mai inteso la musica da camera come ambito culturale riservato a soli raffinati intenditori, ma da sempre il Rome Chamber mescola i generi, senza snobismi e con uno spirito tipicamente americano”. Uno spirito che McDuffie stesso sintetizza al meglio quando con le sue scelte artistiche ribadisce, anno dopo anno, la necessità di “abbattere l’idea che la musica classica sia un oggetto d’antiquariato”. La trasmissione del sapere classico, così, nel serrato dialogo tra Europa e Stati Uniti, entra nel terzo millennio. (aise)
di Alessia Cosseddu (Almanacco della Scienza, Febbraio 2022)
Il tenore Saimir Pirgu, da adolescente vede in tv il concerto dei “tre tenori” e ne rimane affascinato, decide che il canto sarebbe stato la sua vita. Albanese di nascita, nel 2014 è naturalizzato italiano dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Racconta gli incontri con Pavarotti e Abbado e la grande gioia di tornare a esibirsi in pubblico dopo l’interruzione per la pandemia
“Tenore energico dalla voce dolce”, così lo ha definito il New York Times. Saimir Pirgu è un tenore di grande talento, lo dimostrano le numerose attestazioni di stima e i numerosi premi ricevuti, come il “Pavarotti d’oro”, vinto nel settembre del 2013. Nasce in Albania e, all’età di 18 anni, viene in Italia per proseguire i suoi studi musicali. Diploma di violino in Albania e poi Conservatorio a Bolzano. Nasce qui il suo legame con l’Italia. “Un legame fortissimo, quasi simbiotico. È un Paese che amo per la sua arte e che al tempo stesso mi ha dato molto. Ho trascorso più della metà della mia vita in Italia, ho studiato canto al Conservatorio Claudio Monteverdi di Bolzano, vivo a Verona e sono orgoglioso che il Presidente della Repubblica italiana mi abbia conferito nel 2014 la cittadinanza. L’Albania è però dentro di me, sono e resto albanese per appartenenza e carattere; mi sento italiano per la mia professione, il canto, che è anche la mia vita. L’Albania è il cuore, l’Italia è l’arte”.
Quando è nata la passione per la musica? La passione per la musica è sempre stata dentro di me. Sin da piccolissimo ho sempre amato cantare. Eseguivo canzoni popolari davanti a piccoli pubblici di amici e conoscenti. Come ho spesso affermato, mi ritengo un “prodotto” dei tre tenori Carreras, Domingo e Pavarotti. È grazie a loro che ho intrapreso la strada del canto. Avevo circa 13-14 anni quando mi trovavo a Elbasan, una piccola città industriale dell’Albania, era da poco finito il comunismo e vidi in tv il famoso concerto da Caracalla dei tre artisti. Ne rimasi affascinato. Registrai quel concerto e lo riascoltai infinite volte.
Si è detto spesso che la televisione è stata una formidabile ambasciatrice dello stile di vita nostrano nel suo Paese d’origine, e lei lo conferma Sì, da quel momento ho deciso che il canto sarebbe diventato la mia vita. Ad appena 18 anni, diplomatomi in violino, ho deciso di venire in Italia. Al Conservatorio di Bolzano ho incontrato il maestro Vito Brunetti, che mi ha voluto nella sua classe, e a 20 anni ho vinto i concorsi Enrico Caruso di Milano e Tito Schipa di Lecce. La voce ha girato e nel 2004 ho debuttato alla Staatsoper di Vienna e al Festival di Salisburgo. Mai avrei pensato, a pochi anni dal concerto di Caracalla, di ritrovarmi accanto ai suoi tre protagonisti: ho condiviso il palco del Metropolitan Opera di New York con Domingo, ho cantato a Vienna con Carreras e ho avuto Pavarotti come amico.
Com’è avvenuto il suo incontro con Pavarotti? Ho avuto la fortuna di conoscerlo a 19 anni, nel periodo di Bolzano. Era a Merano per cure e amava trascorrere il tempo libero ascoltando nuove voci promettenti. Perciò aveva chiesto se nei dintorni si potesse ascoltare qualche cantante. Fecero il mio nome, mi sono presentato ed è nata un’amicizia durata fino agli ultimi giorni della sua vita. Pavarotti è stato un sostegno fondamentale. Lo vedevo costantemente. Ho studiato con lui i più famosi titoli di repertorio, è stato un maestro, un amico e consigliere; aver ricevuto il Pavarotti d’oro nel 2013 è stata un’emozione grandissima, come un rafforzamento del sentimento e della stima che provo per lui, un modo per sentirlo vicino a me.
Un altro incontro importante è stato quello con Claudio Abbado Mi ha scoperto a Ferrara, avevo 22 anni. Nel momento in cui ho vinto a Milano il Premio Caruso, il mio nome gli è stato segnalato e il maestro, sempre attento alle novità, si è incuriosito e mi ha chiamato per un’audizione, così ho cantato con lui “Così fan tutte” a Ferrara, Modena e Reggio Emilia. Era strepitoso, aveva grande intuito nel selezionare i giovani, adorava lavorare e fare musica con loro e si caricava positivamente, trasmettendogli il dono della musica. Sarà stato anche per la giovane età, ma solo successivamente ci si rende conto della grandezza di lavorare con grandi musicisti come lui. Mi ritengo molto fortunato per aver potuto iniziare la mia carriera con uno dei più grandi direttori d’orchestra. Per quasi un decennio la mia più grande preoccupazione è stata quella di mantenermi sulla linea di questo grande inizio e di non deludere le aspettative che Abbado aveva su di me.
Com’è stato tornare a esibirsi davanti al pubblico e come ha vissuto il periodo di interruzione degli spettacoli durante i lockdown più severi? Avevo appena finito di debuttare in Onegin all’Opera di Roma quando, rientrato a casa, è cominciato il primo lockdown. È stato stranissimo per me, abituato a essere in giro per il mondo più di 300 giorni all’anno, ritrovarmi per tutto questo tempo a casa. Fortunatamente ho ripreso a lavorare pochi mesi dopo, ma soprattutto in concerti in streaming, con pochissimo pubblico distanziato o spesso senza spettatori. La voglia di esibirsi era tanta, ma mancava il calore del pubblico, linfa vitale per noi artisti. Il graduale ritorno alla normalità è come una nuova boccata di ossigeno, è come tornare a vivere, e ultimamente percepisco ciò che accaduto in quei difficili mesi come uno strano sogno, come una parte di vita non vissuta, perché priva di bei ricordi: un tempo che si è fermato per alcuni mesi. Il ritorno a esibirsi in pubblico ha comportato una gioia indescrivibile, una consapevolezza ancora più forte dell’amore che ho per il mio mestiere, e sono felicissimo di aver appena inaugurato la nuova stagione di Parigi al Théâtre des Champs-Élysées e di essere tornato alla Royal Opera House di Londra dove, recentemente, ho debuttato in un nuovo ruolo.
Ad aprile 2021 è stato protagonista di una Traviata trasmessa dalla Rai e seguita da un milione di telespettatori. La cultura in tv può ancora fare audience? Certamente, soprattutto se lo spettacolo è ben realizzato. La qualità permette di avvicinare sia un pubblico esperto d’opera che un pubblico amante della cultura in generale. Questa Traviata che la Rai ha trasmesso lo scorso aprile, tra le varie peculiarità aveva anche quella di essere stata trasmessa in un periodo in cui i teatri erano chiusi per la pandemia: la risposta del pubblico non si è fatta attendere ed è stato bello sentire nei commenti di aver riportato finalmente, dopo tanti mesi, la gioia di rientrare a teatro attraverso la tv.
Se paragonasse la sua vita a un’opera lirica o a un personaggio di un’opera lirica, quale sceglierebbe? Sono poche le opere in cui il tenore non muoia, non sia triste o non abbia una vita difficile, ma dovendo scegliere, togliendo l’ingenuità del personaggio, sceglierei Nemorino de “L’elisir d’amore”, un eterno giovanotto che vive la sua favola inseguendo l’amore della sua vita.
E qual è il suo legame con la scienza? Devo dire che, pur non avendo un legame concreto con la scienza, provo per essa un grande interesse: mi interesso molto di chimica, fisica quantistica, viaggi spaziali… Sono un sognatore e amo tantissimo le novità, le nuove scoperte scientifiche sia in campo medico sia in tutti gli altri settori in cui ci sia un progresso per la nostra società e per l’umanità in generale.
Sul solco scavato da “Silent City”, l’opera lirica co-creata con i cittadini di Matera all’interno del programma della Capitale Europea della Cultura 2019, prosegue il progetto Community Opera, ideato dalla compagnia teatrale L’Albero con l’obiettivo di portare l’opera lirica in contesti territoriali e comunità altrimenti mai raggiunti da questa forma artistica che da secoli porta alto il nome dell’Italia in tutto il mondo. Community Opera è un format basato sulla co-creazione con le comunità per la promozione del linguaggio dell’opera e si avvale di un collettivo di professionisti che sperimentano attorno all’opera su temi quali l’inclusione, l’accessibilità, l’innovazione sociale e la valutazione dell’impatto che le azioni di tali progetti hanno sulle comunità coinvolte. Il progetto è riconosciuto dal Ministero della Cultura – Direzione Generale Spettacolo nel settore Promozione Musica – Coesione e Inclusione Sociale. Community Opera fa produzione di opere liriche di comunità, propone azioni di education per scuole di ogni ordine e grado, fa ricerca artistica e metodologica, in particolare sul processo della co-creazione, fa formazione a educatori, professionisti e artisti sugli strumenti che sperimenta. Nell’ambito del lavoro di produzione di Community Opera, negli ultimi mesi la compagnia teatrale L’Albero e i partner del progetto hanno svolto laboratori di co-creazione sull’opera di comunità “Carmen e le altre ragazze straordinarie”, una storia di riscatto, ribellione e rinascita tutta al femminile ispirata alla Carmen di Bizet. Un progetto rientrato nella short list dell’Education Prize di Fedora Platform, il più importante premio internazionale per l’opera e il balletto. Un laboratorio di co-creazione costumi, dal titolo “Carmen Hack” si è tenuto a fine novembre a Potenza con il coinvolgimento di 10 donne migranti, che hanno potuto lavorare sulle proprie storie personali per ideare i costumi dell’opera. A condurre l’azione, Marianna Dinuzzi, stilista e costumista diplomata in Fashion Design allo IED di Roma. Il laboratorio di co-creazione musicale “Carmen Shake”, condotto dal compositore e divulgatore musicale Matteo Manzitti, ha permesso ai partecipanti di creare paesaggi sonori mescolando le storie create nelle precedenti fasi di co-creazione drammaturgica e la cui rielaborazione entrerà a far parte della produzione finale dello spettacolo. Community Opera ha disegnato e realizzato, in collaborazione con L’Accademia degli Stracuriosi, percorsi di avvicinamento al linguaggio dell’opera lirica con ogni fascia di età: scuola dell’infanzia, scuola primaria, scuola secondaria di I e II grado. Sono stati circa 450 gli alunni delle scuole del Vulture e della provincia di Matera che hanno partecipato ai laboratori di “Opera Explore”, condotti da Alessandra Maltempo, co-direttrice artistica de L’Albero, in collaborazione con Gino Marangi. Coinvolti anche circa 50 insegnanti in una fase di formazione sull’utilizzo di un toolkit che prevede attività didattiche in cui l’opera si fa strumento di attivazione relazionale e comunicativa e di sviluppo di competenze diverse. Le attività educational hanno interessato anche 80 allievi dai 5 ai 50 anni della Scuola sull’Albero, la scuola di teatro della compagnia L’Albero. Nell’ambito della ricerca artistica, Community Opera ha gettato le basi per la creazione di un nuovo linguaggio musicale e performativo inclusivo, grazie alla residenza “Inclusive Opera”, a cui hanno partecipato gli artisti del collettivo Consuelo Agnesi, artista sorda, Chiara Osella, cantante d’opera, Francesco Leineri, compositore, e Alessandra Maltempo, attrice e formatrice teatrale. La ricerca si è concentrata sul lavoro con una comunità di persone sorde e con insegnanti e studentesse del Liceo Musicale e Coreutico “Pitagora” di Montalbano Jonico (MT), per codificare un metodo di composizione in cui la diversità è parte del processo creativo. Community Opera è anche ricerca accademica, grazie alla convenzione con l’Università degli Studi della Basilicata, che per il terzo anno consecutivo ha permesso al team de L’Albero di curare il laboratorio di Storia della Musica del corso di studi di Scienze della formazione primaria, all’interno dell’insegnamento del professor Dinko Fabris, da sempre attento al rapporto della musica con il sociale. Un’occasione per trasmettere a studenti e studentesse universitarie, che saranno futuri insegnanti, visioni e strumenti per incuriosire e appassionare i propri alunni all’opera come strumento unico di educazione culturale e artistica. Il lavoro di ricerca di Community Opera è stato presentato a Bridging the Gap – Community Music and Community Opera, la prima conferenza internazionale dedicata al tema, organizzata da Libera Università di Bolzano e Università degli Studi della Basilicata, nel cui comitato scientifico è entrata a far parte Vania Cauzillo, co-direttrice artistica de L’Albero. La fase di formazione di Community Opera si è concentrata sui temi dell’opera partecipata, sulla co-creazione con le comunità, sull’accessibilità e l’inclusione nelle arti performative. In particolare la masterclass “Opera Maker”, rivolta a professionisti del settore creativo e culturale e realizzata grazie al supporto di Basilicata Creativa, ha permesso di trasferire ai partecipanti il metodo implementato dalla compagnia L’Albero sulla co-creazione dell’opera, sui processi partecipati per le arti performative in genere e sull’accessibilità. Un focus importante, a cura di Materahub, è stato rivolto alla valutazione e misurazione degli impatti sociali, sulla base del caso studio di “Silent City”, con il supporto di Carlo Ferretti, cultural designer e ricercatore sugli impatti. Le attività formative dedicate all’inclusione, condotte da Cristina Amenta, disability manager, hanno interessato trasversalmente ogni fase del progetto Community Opera, fornendo strumenti e metodi per creare dei processi di educazione al bisogno all’interno di una progettazione artistica accessibile. Le attività dell’intero processo sono state organizzate con il supporto di Rita Scalcione, responsabile organizzativa. Le informazioni su Community Opera sono disponibili sul sito http://www.communityopera.it e sui canali social del progetto. (aise)
In occasione del 150° anniversario dalla prima teatrale dell’Aida, opera drammatica di Giuseppe Verdi e Antonio Ghislanzoni andata in scena al Teatro Khediviale dell’Opera del Cairo il 24 dicembre 1871, il Ministero della Cultura guidato da Dario Franceschini celebra una delle opere liriche italiane più apprezzate con una campagna digitale dal titolo #aida150 che proseguirà fino all’8 febbraio, data in cui, nel 1872, l’Aida andò in scena al Teatro alla Scala di Milano per la prima europea. Se è vero infatti che la prima assoluta si svolse sul palcoscenico del Cairo nel 1871, il compositore non diresse personalmente l’orchestra né enfatizzò mai quel debutto come l’effettiva première dell’opera. Fu invece la rappresentazione scaligera dell’8 febbraio 1872 quella che il cigno di Busseto ha sempre avuto maggiormente a cuore e su cui profuse il massimo impegno e grandi cure d’allestimento. Con questa campagna, che culminerà il 17 marzo 2022 con l’apertura della mostra “Aida figlia di due mondi” al Museo Egizio di Torino, il MiC ricorda entrambi i momenti, accompagnando il pubblico con un viaggio esotico nella misteriosa terra degli antichi faraoni attraverso bozzetti di scena, figurini di costumi, manifesti pubblicitari, documenti epistolari, abbozzi musicali e partiture operistiche. Alcuni di questi documenti d’archivio permettono di ricostruire il processo creativo che ha portato all’allestimento del capolavoro operistico, altri invece svelano gli aneddoti storici che hanno legato per sempre le città di Milano e del Cairo. Il poster della campagna è un’immagine simbolica: alcune testimonianze cartacee sono state digitalmente ritagliate e ricomposte per dar vita a un manifesto emblematico, un collage con i titoli dell’Aida così come questi apparivano sui documenti originali. Gli archivi, le biblioteche, i teatri e i musei dello Stato che hanno aderito alla campagna con i preziosi materiali conservati nelle proprie collezioni sono stati numerosi: dall’Archivio di Stato di Milano arriva un documento autografo che riporta la firma di Verdi, mentre sono dell’Archivio di Stato di Parma gli unici abbozzi musicali autografi del maestro che, sebbene possano a volte apparire poco decifrabili, rivelano tanto sul maestro e sul percorso che lo ha portato a dare vita all’Opera. Uno speciale contributo nella scelta dei documenti è arrivato da Fabrizio Della Seta, già professore nel Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali, Università di Pavia, sede di Cremona. Una significativa collaborazione è giunta dall’Archivio Storico Ricordi, una delle più importanti collezioni musicali private al mondo. L’archivio ha reso accessibile un immenso patrimonio di lettere personali, materiale iconografico e partiture per orchestra dell’omonima casa editrice specializzata in edizioni musicali che, tra i tanti progetti con teatri, musicisti e compositori, curò anche la pubblicazione di vari libretti operistici della Celeste Aida; da qui provengono i bozzetti di Girolamo Magnani realizzati per le scenografie della première milanese del 1872, i figurini con i fantasiosi costumi disegnati da Attilio Comelli per lo spettacolo del 1906, sempre a Milano, o ancora la corrispondenza epistolare tra alcuni degli “autori” dell’Aida come Giuseppe Verdi, la famiglia Ricordi, il librettista Antonio Ghislanzoni che lascia trapelare curiosi particolari risalenti al periodo di gestazione dell’opera. Un altro importante contributo proviene dal Museo Salce di Treviso, casa dei manifesti pubblicitari d’epoca, che conserva numerose locandine dell’Aida tra le più originali, realizzate a cavallo dei due secoli. E, ancora, l’Istituto Nazionale di Studi Verdiani di Parma, che ha preso parte alla campagna con i libretti operistici della prima del Cairo del 1871 in italiano, francese e arabo. Inoltre, un’intervista ad Alessandro Roccatagliati, professore di Musicologia e Storia della Musica all’Università di Ferrara e direttore delle attività scientifiche dell’INSV di Parma, racconterà del terribile incendio che nel 1971 distrusse il teatro Khediviale del Cairo e di come alcuni documenti egiziani furono salvati grazie ai contatti tra Saleh Abdoun e Mario Medici, rispettivamente, nel 1971, soprintendente e direttore dell’Istituto parmigianino. Ogni settimana, sui canali social del Ministero, saranno approfonditi i diversi aspetti del melodramma: l’inquietudine dei quattro atti, le fastose scenografie del debutto europeo, le preziose lettere personali, le affascinanti partiture autografe del maestro e i diversi temperamenti dei personaggi raccontati attraverso una storia narrata dai protagonisti in prima persona, come in un flusso di coscienza. Centrale nelle celebrazioni dell’opera verdiana la mostra “Aida figlia di due mondi” al Museo Egizio di Torino, che porterà l’attenzione su tutti gli aspetti caratteristici di un’opera che rimane, nella sua semplice grandiosità, una struggente storia d’amore e di potere nella quale si intersecano le drammatiche vicende dei tre protagonisti: la sfortunata Aida, principessa etiope e schiava egizia, Radamès, prode guerriero comandante dell’esercito egizio, e Amneris, la passionale figlia del faraone. “Aida 150” si inserisce nella più ampia cornice della campagna di comunicazione che, con il claim “A teatro si respira la vita”, come da disposizioni governative promuove il ritorno nelle sale teatrali in sicurezza con il Super Green Pass. (aise)
Ammettiamolo, Traviata è un’opera che, volenti o nolenti, penetra nell’animo di ogni spettatore, ognuno con il proprio sentire. Proprio per questo motivo non si adatta benissimo ai grandi spazi all’aperto, ma coinvolge molto di più nell’intimità di un teatro al chiuso.
Tuttavia quest’anno la particolare situazione che obbliga i teatri ad adattare le esigenze sceniche a quelle sanitarie ha spronato la creatività, e creato un ambiente intimo anche in questo particolare ed enorme palcoscenico che è l’Arena di Verona. Infatti non si nota più di tanto che l’orchestra è totalmente “dilatata” da un lato all’altro, perché rapiti da quello spazio ben delimitato dai grandi schermi e dalle scenografie essenziali. Mettici immagini di grande effetto perfettamente a tema con la trama, e il viaggio in un’altra dimensione è assicurato.
La Fondazione Arena di Verona, tramite i video design e le scenografie digitali curate da D-WOK, quest’anno con Traviata celebra la figura femminile nei secoli. In un’atmosfera elegantissima le immagini messe a disposizione dalla Galleria degli Uffizi ci rimandano ad ogni tipo di donna del passato, con denominatore comune la grazia, la bellezza, l’intensità degli enigmatici sguardi e dei momenti cristallizzati nelle opere che grandi pittori e scultori ci hanno regalato nello spazio temporale che va dal Rinascimento fino al diciannovesimo secolo. E queste immagini ci accompagnano e velatamente interagiscono con i fondali digitali e con il pubblico. Significativo, nel finale, quando le tele a colori che raggruppano tutte le immagini proiettate durante l’opera, si spogliano della loro cornice dorata e si trasformano in bianco e nero, mentre la protagonista sta passando a miglior vita.
Irina Lungu
A onor del vero il primo atto di questa serata ci ha lasciati un po’ perplessi. Dopo lo struggente preludio iniziale, forse per qualche scollamento tra buca-coro-palco e per la sostituzione all’ultimo minuto dell’interprete femminile protagonista, riscontriamo qualche difficoltà di troppo per Irina Lungu (“madamigella” Violetta Valery), che risulta col fiato un po’ corto e con un canto “distratto”. Il “Sempre libera” sembra quasi riscritto, con abbellimenti e variazioni mai sentiti.
Ma l’impaccio dura poco e Irina si riprende completamente dal secondo atto, e ritorna la grande interprete che ben conosciamo. Eteree mezze voci, begli acuti e altrettanti bei filati, con nobili accenti e fraseggi che spaziano in tutto quello che è Violetta: a volte sfacciata, a volte straripante d’amore, a volte disperata, passionale, stanca, afflitta e sofferente. Bravissima.
Francesco Meli vocalmente e drammaturgicamente davvero in gran forma, era tanto che non sentivamo un Alfredo così. Con un perfetto controllo del fiato ha giocato a suo piacimento con le dinamiche del suo personaggio, sempre perfettamente a fuoco, con impeto e squillo facili, ma sfoderando anche momenti lirici e romantici, senza mielismi ma anzi con vellutati momenti di notevole livello timbrico.
Anche Luca Salsi ha scavato a fondo nel suo ruolo. Con un canto sempre dosato e sfumato ma con le fondamenta di una ottima dizione, e’ perfetto in Giorgio Germont, del quale riproduce appieno i tratti: padre preoccupato del buon nome della famiglia, che per questo motivo cerca la miglior mediazione per convincere Violetta a lasciare il suo amato, pur conscio fin da subito di creare una inutile sofferenza, della quale alla fine si pentirà amaramente.
Compagna di feste di madamigella Valery è Victoria Pitts, nella finzione Flora Bervoix. Se nel primo atto ha dato tutto sommato una buona prova, nel resto dell’opera non ci ha convinti molto, come anche Yao Bohiu nei panni di Annina.
Per quanto riguarda il resto del cast, finalmente per tutti un dovuto plauso, nessuno escluso: belle voci e ottima dizione dal primo all’ultimo: Carlo Bosi (Gastone di Letorières), Nicolò Ceriani (BaroneDouphol), Natale De Carolis (Marchesed’Obigny), Romano Dal Zovo (DottorGrenvil), Max René Cosotti (Giuseppe), Stefano Rinaldi Miliani (Domestico/Commissionario).
Belli, curati e azzeccatissimi i costumi che vestono i protagonisti. Abbiamo molto apprezzato anche l’uso dei colori nella festa con le zingarelle e i matador, e le danze del corpo di ballo dell’Arena, nel quale spicca per bravura e stupefacente bellezza la prima ballerina Eleana Andreoudi.
Coro dell’Arena, ancora purtroppo relegato nelle gradinate insieme al proprio Maestro Vito Lombardi, non riusciamo ad apprezzarli appieno vista la scomoda posizione ma, tant’è, quest’anno è così. Li rivedremo presto – speriamo – sul palco in tutta la loro bravura e professionalità.
Dulcis in fundo il Maestro concertatore Francesco Ivan Ciampa, che infonde gusto, eleganza, pathos, dramma e romanticismo con grande maestria in ogni momento, attentissimo all’orchestra ma anche a palco e coro, e il risultato complessivo è, naturalmente, bellissimo. Bravo Maestro.
Saremo forse ripetitivi, ma di Traviata non ci si stanca mai. Specialmente quando l’esecuzione, nel suo insieme, è così ricca, sia vocalmente, che scenicamente e musicalmente. Ed è bellissimo tornare a casa portando con sé piccoli pezzi di un’altra vita, di un altro tempo, di un altro amore, che lentamente forse sbiadiranno…ma ci saranno per sempre. Viva Verdi.
La recensione si riferisce alla prima del 10 luglio 2021
Nei momenti di difficoltà l’essere umano si ingegna, ed in particolare quando the show must go on. Infatti l’emergenza sanitaria planetaria che ha fermato per oltre un anno i teatri, ha fatto si che il direttivo della Fondazione Arena di Verona, capitanati dal celebre soprano Cecilia Gasdia, trovasse una strada alternativa per rimettere in scena gli spettacoli al Teatro dell’Arena, tanto amato e invidiatoci da tutto il mondo. L’occasione e lo spunto sono stati anche e soprattutto il profondo cambiamento sociale ed economico legato alle innovazioni tecnologiche che rapidissime hanno ormai coinvolto qualsiasi aspetto della nostra vita quotidiana: e chi non si adegua è perduto.
Agostina Smimmero e Sonia Ganassi (Cavalleria Rusticana)
L’effetto, come era prevedibile, è sorprendente e oltremodo spettacolare. Quattrocento metri quadrati di led video-wall ora proiettano i desideri anche della più sfrenata mente registica, e naturalmente l’effetto “wow” è assicurato. L’idea non è tuttavia nuovissima: in Italia la bravissima scenografa Monica Manganelli aveva “arredato” una Aida a Genova interamente in digitale, con un risultato a dir poco sbalorditivo.
Nel palco Areniano troviamo però una soluzione mista: pochi ma essenziali e funzionali arredi si mescolano perfettamente con le enormi proiezioni digitali, e dobbiamo ammettere che non si rimpiangono assolutamente le scenografie tradizionali, anzi, la fantasia e le emozioni sono trascinate ancora più lontano.
L’unica “pecca” del nuovo adeguamento alle norme sanitarie è che gli artisti del coro sono relegati nelle gradinate del lato sinistro rispetto al palco e si è percepito talvolta un disallineamento tra orchestra coro stesso. Sono inoltre presenti plexiglass che isolano fiati e percussioni: ne consegue che il suono è piuttosto diverso da quello tradizionale dell’Arena, ma non per questo meno bello, e, convinti che le attuali imperfezione saranno presto superate, ci faremo presto l’abitudine.
In questo caldo sabato che inaugura definitivamente la stagione estiva, troviamo le prime opere già previste in cartellone nel 2020 e non andate in scena per ovvi motivi: Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni e Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, nei nuovi bellissimi allestimenti tutti della Fondazione Arena di Verona, con la collaborazione video design e scenografie digitali D-WOK, e i contributi dei Musei Vaticani, Biblioteca Apostolica Vaticana ed il Parco valle dei dei Templi di Agrigento,
Marco Amiliato (Cavalleria Rusticana)
Sempre belle da vedere queste due opere, che si differenziano dal classico repertorio cui siamo di solito avvezzi, perché, ammettiamolo, celebrano quello che spesso l’essere umano è veramente. Viene infatti posta in evidenza una dinamica e un modus vivendi che giustamente è condannato dalla nostra società, ma tristemente presente. Da un lato uomini che hanno sempre complicati rapporti genitoriali, specie con la madre, e diventano brutali nella loro incapacità di costruire un rapporto con le donne se non con la violenza, e dall’altro lato donne succubi e vittime di aguzzini difesi e idolatrati da loro stesse.
Cavalleria Rusticana è messa in scena all’Arena come deve essere, con colori cupi ed elementi tipicamente siciliani: la storia si svolge infatti a Vizzini, un piccolo comune della Sicilia orientale. Questa terra baciata dal sole e la sua profonda cultura religiosa siciliana sono protagonisti in tutta l’opera, e vengono enfatizzati dalle proiezioni tridimensionali di meravigliose immagini della Valle dei Templi e di alcune processioni religiose d’epoca.
Nel corso degli anni abbiamo constatato però che sono poche le orchestrazioni che “rendono” perfettamente il calore e l’impeto della solare terra nella quale si svolge il dramma. Il Maestro Marco Armiliato, pur con una buona conduzione perfettamente seguita da un’ottima Orchestra dell’Arena, ha conferito infatti a tutta l’esecuzione una allure un po’ troppo romantica, e non ha fatto emergere invece la verve tipicamente siciliana.
Sonia Ganassi nel suo debutto areniano ha interpretato Santuzza. Abbiamo apprezzato molto le doti canore di Sonia in diverse occasioni, e alte erano le nostre aspettative. Soddisfatte a metà però. Se da un lato a livello drammaturgico è stata una perfetta attrice e ci ha commosso più volte, dal punto di vista vocale forse una certa emozione l’ha portata ad una esecuzione non omogenea, anche se i colori e i fraseggi nella linea di canto sono degni di plauso. Bellissima l’interpretazione di “Inneggiamo, il Signor non è morto”. Brava.
Una scena della Cavalleria Rusticana
Santuzza è promessa sposa di Turiddu, che però ama Lola, a sua volta impegnata ufficialmente con Compare Alfio. Un simile intreccio si sa, è complicato e può anche diventare estremamente pericoloso, e infatti per questo Turiddu verrà ucciso da Compare Alfio.
Murat Karahan veste i panni di Turiddu, utilizzando tutta la sua bravura per dipingere un personaggio che inizialmente è spavaldo e sicuro di sé ma poi si pente ed affronta consapevolmente il proprio destino. Il tenore turco però commette a nostro avviso un errore di intenzioni nell’Addio alla madre dove si spoglia completamente della sua sicilianità e diventa quasi un bravo ragazzo impaurito. Sono comunque piccole sfumature, in quanto tutta l’interpretazione è sostenuta da memorabili fraseggi che hanno portato ad una generale esecuzione di grande caratura.
Murat Karahan
Alfio è stato interpretato da Amartuvshin Enkhbat. Stiamo seguendo con molto interesse da qualche tempo questo baritono originario della Mongolia, e dobbiamo ammettere che sta diventando sempre più bravo. Voce scura ma brillante, drammaturgia e fraseggi impeccabili hanno contraddistinto la drammatica parte del marito tradito. Lodevole anche la perfetta pronuncia italiana, che denota un grande lavoro.
Agostina Smimmero è la rivelazione della serata: inscenare una “mamma” del Sud non è certo cosa facile, ma lei ci è riuscita in maniera sorprendente. Con il bel timbro scuro e un atteggiamento tipicamente meridionale ci ha regalato una mamma Lucia come mai avevamo visto.
Murat Karahan e Clarissa Leonardi
Una scena della Cavalleria Rusticana
Clarissa Leonardi, non perfettamente in voce, ha comunque trasmesso una corretta ed energica Lola.
A seguire Pagliacci: ricordiamo che è un fatto realmente accaduto nel 1865 a Montalto Uffugo in provincia di Cosenza, dove il padre dell’autore era magistrato e aprì l’istruttoria per l’efferato uxoricidio ed omicidio. Essendo la narrazione ambientata in una compagnia di girovaghi impegnati in uno spettacolo, tutti i personaggi assumono una doppia connotazione.
Quest’opera era anche molto amata da Federico Fellini: la fondazione approfitta del nuovo impianto scenico per fargli omaggio, proiettando delle belle e azzeccate immagini di pellicole in bianco e nero con il “pagliaccio” Giulietta Masina, facendo quasi immaginare che quanto avviene sul palco siano le riprese di un film. Bellissimo.
Marina Rebeka (I Pagliacci)
Nel prologo, durante il quale Tonio (Taddeo lo scemo), il pagliaccio gobbo, spiega agli spettatori l’argomento del dramma, Amartuvshin Enkhbat dà il meglio di sé e strappa al pubblico un applauso calorosissimo, al termine di una interpretazione stupefacente, che ci ha trasportati per qualche minuto in un altro mondo.
Marina Rebeka e Maio Cassi (I pagliacci)
Canio (Pagliaccio), geloso a tal punto da diventare violento è stato interpretato dall’ormai più che famoso Yusif Eyazov. Anche per lui la carriera sta proseguendo con notevoli miglioramenti. Il canto è ormai sicuro e tranquillo, quasi indulgente all’abbandono interpretativo. Ne consegue un personaggio credibilissimo, ricco di sfumature e assolutamente coinvolgente e lo studio e la dedizione alla parte sono talmente evidenti che gli si possono perdonare alcuni piccoli inciampi esecutivi. Bellissimo il celeberrimo “Vesti la Giubba”.
Canio ha il sospetto, fondato, di essere tradito con Tonio dalla moglie, Nedda. Quest’ultima è Marina Rebeka che, con voce trasparente e raffinata contrapposta a momenti passionali ed ammiccanti ha interpretato la moglie fedifraga in modo coinvolgente fino alla fine.
Yusif Eyazov (I Pagliacci)
In realtà Nedda ha una tresca con Silvio, ricco possidente della zona, che è stato interpretato da Mario Cassi. Per lui non c’è molto da dire: interpretazione egregia, bellissimi fraseggi, dizione perfetta. Bravo.
Alla fine Canio, accecato dalla gelosia, accoltellerà la moglie che, in punto di morte, gli rivelerà il vero nome dell’amante, Silvio, il quale morirà a sua volta sempre per mano di Canio.
Max René Cosotti (un contadino) e Dario Giorgelè (un altro contadino) completano degnamente il cast di questa serata.
Amartuvshin Enkhbat e il resto del cast (I Pagliacci)
Il Maestro Marco Armiliato, ha decisamente risolto i problemi di tempi e di quel leggero scollamento tra buca, palco e comparto corale della rappresentazione precedente, con una direzione precisa, con bei volumi, ampi respiri e coinvolgenti fraseggi.
Repliche per Cavalleria rusticana e Pagliacci: 2,22,31/07 e 14/08.
Gli spettacoli di Cavalleria, Pagliacci e Aida del 26 giugno sono anche stati ripresi da RAI3, e andranno in onda ogni martedì a partire dal 27 luglio, in tre serate, illustrate e accompagnate da Pippo Baudo e Antonio di Bella.
Lo svago e il divertimento culturale muovono dunque i primi passi dopo l’interruzione forzata. Sappiamo che niente sarà come prima, ma è stato bello, rassicurante e rasserenante risedersi nelle poltrone di un teatro e godere nuovamente della bravura di artisti e maestri di tutto il mondo.
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(NoveColonneATG) Roma – Carla Fracci, regina della danza italiana, è morta il 27 maggio a Milano ad 84 anni, dopo il peggiorare delle sue condizioni di salute negli ultimi giorni. Figlia di un tramviere, classe 1936, aveva conquistato tutti i più grandi teatri del mondo esibendosi con grandi nomi, da Nureyev a Baryshnikov, interpretando più di duecento personaggi nella sua lunga carriera. Orgoglio milanese, studiò nella scuola di ballo della Scala, di cui poi è diventata étoile, costruendo un legame indissolubile con il teatro. Un legame che l’ha accompagnata fino alla fine, dimostrato dalla masterclass dello scorso 28 e 29 gennaio tenuta in streaming sui profili social della Scala davanti ai protagonisti del balletto Giselle, reperibile anche su Raiplay. Un legame nato nel 1955, anno del suo debutto sul palco del Piermarini, dal quale non si è più fermata. Se ne va l’ultima diva della danza italiana. La sua è una carriera di successi, punteggiata di ruoli memorabili, romantici e drammatici. Ha saputo fare suoi ruoli femminili come Giselle, La Sylphide, Giulietta, Swanilda, Francesca da Rimini e Medea. La sua danza è stata a accompagnata dai più famosi ballerini, da Rudolf Nureyev a Vladimir Vassiliev, da Paolo Bortoluzzi a Massimo Murru e Roberto Bolle. Partendo da umili origini, la Fracci è stata in grado di conquistare il successo grazie ad un talento innato, talento che ha avuto il suo apice nel 1981, quando il New York Times la definì “prima ballerina assoluta” come Pierina Legnani e Alessandra Ferri. Tanti i ruoli coperti durante la sua vita: direttrice del corpo di ballo di Napoli, dell’Arena di Verona dal 1995 al 1997, della Scala, poi Roma e ancora la Scala, membro dell’Accademia delle belle arti di Brera, direttrice del corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma dal 2000 al 2010.
Negli ultimi anni, aveva pubblicato nel 2013 la sua bibliografia “Passo dopo passo”, mentre nel 2014 ha partecipato al film “29200 Puthod, l’altra verità della realtà” dedicato all’omonimo artista internazionale Dolores Puthod. Una personalità in grado di valorizzare il ruole delle donne a teatro, come dimostra il fatto di aver vestito i panni di Amleto all’Opera di Roma in un ensemble di soli uomini. A ricordarla anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha espresso le condoglianze ai familiari e ricordato “le straordinarie doti artistiche e umane, che hanno fatto di lei una delle più grandi ballerine classiche dei nostri tempi a livello internazionale”. Aggiungendo che “Carla Fracci ha onorato, con la sua eleganza e il suo impegno artistico, frutto di intenso lavoro, il nostro Paese”. Il suo estro moderno lo si è visto nelle sue scelte di vita, che hanno affrontato a viso aperto pregiudizi e clichè. E’ il caso, ad esempio, del coraggio di avere un figlio in un mondo, quello della danza, dove all’epoca non c’era spazio per la famiglia. Il suo amato figlio Francesco nacque nel 1969, dopo il matrimonio a Firenze con Beppe Menegatti, aiuto regista di Visconti, dell’11 luglio 1964. O ancora la sua decisione di lasciare il ballo della Scala a favore della pluralità di espressione, andando ad esibirsi nei teatri di periferia. Da sempre voce di ruoli femminili di donne moderne e infelici, come Gelsomina, Medea, Mila, Francesca da Rimini, Zelda Fitzgerald, ha finito per incarnare il simbolo di chi si mette in discussione e di chi si mette al servizio per il proprio paese. Non a caso dal giugno 2009 al 2014 è stata Assessore alla Cultura della Provincia di Firenze ed ambasciatrice di Expo Milano 2015. Una vita vissuta per la danza, una vita che ci ricorda l’importanza di inseguire i propri sogni.
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